Dialoghi con l’autore – Napoli 11 dicembre 2021, Maschio angioino

 

Marta Tibaldi

Presentazione del romanzo di Silvana Lucariello, Mi sono abituata al buio (Luigi Guerriero Editore, 2021) e dei racconti di Giovanni Gaglione, “Il Feng Shui dell’anima” (AA.VV., Terramare, Laura Capone Editore, 2020) e “Flusso di coscienza rappato (ed…erudito) sulla condizione del pianeta terra” (AA.VV., Fluido, Laura Capone Editore, 2021)

Napoli, Maschio angioino, 11 dicembre 2021

Premessa

Vorrei iniziare la mia riflessione ponendo agli autori una domanda, in realtà la prima che ho rivolto a me stessa quando ho letto il romanzo e i racconti di Silvana Lucariello e di Giovanni Gaglione: una domanda alla quale cercherò di dare dapprima la mia risposta, ripromettendomi poi di chiedere agli autori la loro. La domanda è questa: che cosa spinge un/a psicoanalista, e in particolare un/a psicologo/a analista junghiano/a – ammesso che questa specificazione rappresenti una variabile significativa – a scrivere un romanzo o dei racconti, come quelli che presentiamo oggi? In altri termini: quale è la motivazione per cui noi psicologi analisti in un momento della nostra storia personale e/o professionale sentiamo l’esigenza di pubblicare romanzi e racconti?

 

            Le storie e la vita

Vorrei partire da alcune considerazioni che riguardano il nostro lavoro: nella stanza d’analisi come professionisti condividiamo le storie dei pazienti, utilizzando le competenze che abbiamo per trovare insieme le “parole per dirle”[1], di solito in forma orale. In questo modo, quando tutto va bene, co-creiamo con i pazienti quelle “narrazioni che curano”, di cui parla James Hillman[2], che prendono forma dal nostro condividere e “interpretare” le storie dei pazienti. Da questo punto di vista ci troviamo, per certi versi, in una condizione simile a quella di Donata Genzi, l’attrice protagonista della pièce di Pirandello Trovarsi – cui fa riferimento Gaglione in “Il Feng Shui dell’anima” – quando dà voce ai suoi personaggi. Scrive Gaglione: “[Donata Genzi è] una donna che vive […] nei suoi personaggi […] dando loro tutta se stessa.” (p. 103).  Prendendo spunto da ciò che scrive Pirandello in Trovarsi, ci possiamo però chiedere, come fa la giovane Nina, se questo “vivere” sia sincerità o finzione. L’attrice risponde fermamente: “Sono ogni volta come mi vuole la parte con la massima sincerità”[3]. Anche noi possiamo affermare che, quando svolgiamo il nostro lavoro e condividiamo le vite dei pazienti in seduta, lo facciamo con la massima sincerità e, al pari di Donata Genzi sul palcoscenico, diamo parole alla “vita [che] si rivela a noi stessi. Vita che ha trovato la sua espressione[4]. Dunque possiamo considerare le storie interpretate dagli attori in teatro, al pari di quelle co-costruite nella stanza d’analisi, narrazioni della vita che si rivela e che trova così la sua più sincera espressione.

 

Oralità, scrittura e linguaggi “altri”

Nel lavoro analitico le storie dei pazienti si intrecciano alle nostre in vario modo, alla ricerca di parole che le rendano dicibili. Qui si pone un primo snodo significativo: l’esperienza che facciamo della “vita che si rivela” attraverso il lavoro analitico è infatti diversa a seconda di come la raccontiamo. Di solito ciò avviene in forma orale, ma può anche esprimersi attraverso la parola scritta o linguaggi “altri”. Si tratta di modalità diverse che, come sappiamo, producono trasformazioni specifiche nel nostro modo di percepirci e di pensare[5]. Su pensi, ad esempio, ai cambiamenti epocali, che hanno segnato il passaggio dall’oralità alla scrittura, di cui negli anni Sessanta del Novecento si sono occupati autori come Walter Ong[6]  o Marshall McLuhan[7]. Ma si pensi anche al passaggio dalla scrittura alla digitalità, la cosiddetta “quarta rivoluzione”, di cui ha recentemente scritto Luciano Floridi[8]. Potremmo quindi dire che, in termini di consapevolezza di noi stessi e della “vita che si rivela”, l’oralità, la scrittura e i linguaggi “altri” definiscono modi di percepirsi e di dare forma al pensiero specifici: scegliere la scrittura autobiografica (Lucariello) o quella rappata (Gaglione) per raccontare le storie, nostre e altrui, della “vita che si rivela” veicola quindi esperienze caratterizzate, tra l’altro, da significativi gradi di vicinanza o di distanza emotiva dal materiale trattato (di questo parlerò in seguito).

Dobbiamo notare però un altro aspetto delle “storie che curano”, che creiamo nella stanza d’analisi attraverso la scrittura. Il lavoro analitico tende, per così dire, a dare una coerenza narrativa ai vissuti dei pazienti. Da questo punto di vista Jung ci ha rassicurato: il processo d’individuazione va in modo naturale verso il suo “compimento”[9], dando la possibilità alla vita che vive in noi di rivelarsi pienamente nella sua trama autonoma e impersonale, grazie allo strumento di un Io “ben temperato”. Prendendo ancora a prestito le parole di Donata Genzi, potremmo affermare che “vivere [le parti messe in scena dagli attori e fare analisi con i pazienti] significa raccontare la vita, interpretandola nel modo migliore e in tutta sincerità”[10].

A proposito della coerenza narrativa nella scrittura, sappiamo che in letteratura nel corso del Novecento la legge dell’ordine narrativo si spezza: entra in scena l’esperienza del non-senso, insieme all’angoscia e ai vissuti di colpa che ne derivano[11]. Ma il 900 è anche il secolo nel quale, per convenzione, si colloca la scoperta dell’inconscio: l’Io non è più padrone in casa propria, come scrive Freud, e la psicoanalisi è il metodo per venire a patti con la natura caotica e oscura della psiche inconscia.

Il nostro lavoro di analisti, proprio per il suo carattere paradossale, parte dall’esperienza della non-coerenza, del non-senso e del caos – il paziente che viene in analisi porta infatti una discontinuità, una frattura apparentemente insanabile nella narrazione della sua vita[12] – ma tende poi a recuperare una coerenza narrativa: non più quella egoica, quanto quella della totalità psichica: essa nasce dell’integrazione della personalità, che contiene in sé anche la non-coerenza delle parti inconsce che vivono in noi. Dunque noi analisti navighiamo insieme ai pazienti nel mare del non sapere inconscio verso “un sapere dell’anima”, riprendendo il titolo di uno dei più noti libri di Maria Zambrano[13]: in questo modo attraverso la narrazione orale, scritta o virtuale, veniamo a patti con “la vita che rivela se stessa”.

Tornando a Donata Genzi, quando ci troviamo a “fine rappresentazione” – sia essa una seduta di analisi, un percorso analitico nel suo insieme, momenti della vita o l’intera esistenza – possiamo dire in piena sincerità: “E questo è vero… E non è vero niente… Vero è soltanto che bisogna crearsi, creare! E allora soltanto, ci si trova”[14]. Dunque, in buona sostanza, recitare e scrivere mettono entrambi in scena “la vita che rivela se stessa” e l’esperienza di “crearsi e creare e in questo modo trovarsi”.

 

Crearsi, creare! E soltanto allora ci si trova.

Ho fatto questa premessa perché mi pare che “dare parole alla vita che rivela se stessa” e “crearsi, creare e trovarsi soltanto allora” sia la risposta alla domanda che ponevo all’inizio: che cosa spinge un/a psicoanalista, e in particolare un/a psicologo/a analista junghiano/a (ammesso che questa specificazione rappresenti una variabile significativa) a scrivere un romanzo o dei racconti, come quelli di cui parliamo oggi? Questa risposta è anche il filo rosso che secondo me fa da sottofondo alla scrittura di Lucariello e di Gaglione.

Partirei dal romanzo di Silviana Lucariello. Romanzo: mi sono chiesta perché l’autrice lo abbia definito tale. A me è sembrato infatti più un’autobiografia. Lucariello, è vero, usa l’artificio letterario dell’incontro con l’amica Giovanna, indicata al lettore come l’autrice del manoscritto: un modo per creare una distanza da parte di chi legge, distanza che però tende a perdersi nel corso della lettura, prevalendo la narrazione autobiografica sull’impianto narrativo iniziale. Per questo vorrei chiedere a Silvana Lucariello – e questa è la mia seconda domanda: perché ha definito il suo lavoro “romanzo”?

Entrando nel merito: ciò che mi ha colpito dello scritto di Lucariello è il racconto del dipanarsi di una vita, dall’infanzia all’età adulta, che rende visibili e fa toccare con mano il gioco delle variabili interne ed esterne, che nel corso del tempo definiscono un’esistenza umana. Noi adulti siamo il risultato di questo intreccio, nel bene e nel male. Per quanto riguarda le variabili esterne, credo che la nozione junghiana di “inconscio culturale” – intendendo con questa locuzione sia le determinanti familiari che quelle della cultura antropologica di riferimento – ci venga immediatamente in aiuto[15]: la storia che Lucariello racconta sembra infatti quella della buona infanzia di una bambina sana, vitale e con un carattere curioso e allegro – per inciso, quanti di noi potrebbero dire la stessa cosa della propria infanzia? – che si è venuta a intrecciare, in modo difficile, con regole familiari piuttosto rigide e un modo di intendere l’educazione dei bambini caratteristico. Ma non soltanto questo. Scrive Lucariello: “Una bambina vivace, attratta e incompresa dal mondo intorno a lei, di cui desiderava farne maggiormente parte” (p. 38); una bambina che ha un’esperienza fondamentalmente positiva del mondo, ma che non trova negli adulti il rispecchiamento di cui avrebbe avuto bisogno: “Ero ben consapevole che ciò che mi spingeva verso le persone e attirava il mio interesse, era il desiderio di conoscerle. Capirle. Capire come vivevano. E se fossero felici. […] Quei pensieri mi davano la sensazione di non essere separata dagli altri, ma legata a loro da fili invisibili in una sorta di alleanza fraterna, una coralità che mi dava forza ed energia.” (p. 29). La vitalità di questa bambina si scontra in modo insuperabile con un non-detto familiare (il ben noto “segreto familiare” descritto in psicologia[16]), in particolare con i vissuti psichici, probabilmente dissociati, di una madre traumatizzata. Nella bambina ciò intensifica il bisogno di sapere e nello stesso tempo l’impossibilità di accedere ai contenuti psichici materni. (p. 101): “mia madre si è rivelata irraggiungibile e ha lasciato sempre insoddisfatto in me il desiderio irrefrenabile di avvicinarla per sentirla fatta della mia stessa materia” (p. 94).

Leggendo le pagine di Lucariello ho quindi pensato immediatamente a quanto sia importante che i bambini possano fare riferimento a una collettività sana, che veicoli forme educative adeguate. Qui si potrebbe porre un’altra questione: che tipo di pedagogia trasmette oggi la collettività? In senso più specifico, a quali aspetti “pedagogici” facciamo riferimento anche noi psicologi analisti? Ovvero quali sono i valori educativi che sussumono la nostra pratica analitica? Scrive Lucariello: “Mi confrontavo con una diversità nel modo di sentire. Nella mia scala di valori e princìpi. […] Tutto questo mi sconvolgeva e mi faceva vivere una condizione di isolamento e confusione che appartenevano solo a me”.

Questo tema è legato al ruolo relazionale degli adulti e della società nei confronti dei bambini, ma anche degli adolescenti: a loro sembra rivolgersi, in particolare, il racconto “rappato” di Giovanni Gaglione, che tratterò a breve. A proposito di adolescenti mi viene in mente il recente libro di Matteo Lancini[17], nel quale l’autore indica proprio nell’uso, per così dire, ‘misto’, di scrittura rappata la strada da percorrere per svolgere al meglio nei loro confronti il ruolo di adulti. Ritorniamo, per certi versi, anche a quanto scrive Floridi, quando afferma che “le tecnologie della comunicazione sono diventate forze che strutturano l’ambiente in cui viviamo, creando e trasformando la realtà”[18], riferendosi alla necessità di conoscere e di padroneggiare anche questi linguaggi, che danno comunque forma “alla vita che crea se stessa” e alla nostra possibilità di interpretarla “in piena sincerità”.

Come dicevo, la narrazione di Lucariello pone anche il tema della vicinanza/distanza della scrittura dal materiale emotivo trattato. In questo senso ci possiamo chiedere se la scrittura autobiografica del suo romanzo non declini in modo compensatorio le tracce della memoria infantile: un modo per riprendere contatto con il mondo interno che, oggettivato attraverso la parola scritta, torna su di noi e ci modifica, come avviene nel passaggio dall’oralità alla scrittura? Come non ricordare, a questo proposito, ciò che scrive Jung, quando invita a dare forma scritta ai dialoghi immaginali delle immaginazioni attive, per avere davanti a noi “prove oggettive” di ciò che è emerso dal nostro inconscio?[19] Forse è in questa direzione che possiamo trovare il senso profondo del romanzo di Lucariello: un “un libro che cura” la storia passata della bambina e il bisogno di andare finalmente oltre “essersi abituata al buio” (p. 174): la parola scritta recupera così quella luce che mancava, ovvero una diversa consapevolezza di sé e della propria storia.

Utilizzando il metro della “distanza” e della “vicinanza”, ovvero il grado di soggettivazione e di oggettivazione psichica che è mediato dalla scrittura, il registro che utilizza Giovanni Gaglione nei suoi racconti è decisamente diverso da quello di Lucariello. Ne “Il Feng Shui dell’anima”, il personaggio Federico rappresenta già una prima oggettivazione rispetto alle emozioni dello scrittore Gaglione: nel suo racconto non soltanto i lettori possono osservare ciò che Federico dice o fa, ma anche osservare Federico che osserva se stesso. A tratti si sperimenta quindi una sorta di doppia presa di distanza[20] dal personaggio rappresentato: “In quei momenti, a vederlo [Federico], egli appariva sovrappensiero, completamente assorbito dai suoi pensieri […] assorbito da tutto se stesso, in una condizione esistenziale che lo comprendeva e lo racchiudeva totalmente.” (p. 95). Dunque il grado di vicinanza/distanza della scrittura rispetto al materiale emotivo trattato diventa un metro di misura con cui raccontare la vita che si manifesta a noi stessi e che in questo modo aiuta a “trovarci”: Trovarsi di Pirandello è infatti il titolo della pièce che Federico, il personaggio de “Il Feng Shui dell’anima” sta andando a vedere a teatro. Per il protagonista si tratta di un’occasione per riflettere sulla “vera vita”[21]. Nel racconto di Gaglione questa riflessione si articola grazie all’immagine della donna – la protagonista della pièce pirandelliana, ma anche la donna che vende le poesie per un euro – che rimanda di continuo al colore rosso, in contrasto con il grigio che caratterizza l’immagine di Federico. Il grigio e il rosso mi hanno immediatamente fatto pensare ai colori alchemici che, secondo la lettura junghiana, rappresentano stati e processi di trasformazione psichici, di cui facciamo continua esperienza nel corso dell’esistenza: il grigio plumbeo della prima materia vile, immagine della nostra iniziale inconscietà; il rosso, che indica invece il raggiungimento della meta finale dell’opus alchemico, quel centro di stabilità psichica che ci orienta oltre i conflitti. Nel racconto di Gaglione il colore grigio sembra rimandare a una coscienza maschile (Federico), che ha bisogno di essere “lavorata” dal rosso femminile, per recuperare la vitalità che le manca. Per noi donne, che in questo momento stiamo vivendo una stagione maschile particolarmente aggressiva e distruttiva[22], la delicatezza delle parole con cui Gaglione descrive il rapporto con l’immagine femminile – in termini psicologico-analitici la sua immagine di Anima – fa cogliere il piacere che nasce da una buona alleanza tra le polarità maschile e femminile, verso la comune ricerca della totalità psichica[23]. Di questa delicatezza vorrei ringraziare Giovanni Gaglione.

Alcune parole ora sul secondo racconto. “Il flusso di coscienza rappato (ed erudito) sulla condizione del pianeta terra” è una interessante produzione “spontanea” dell’autore: spontanea nel senso dell’immediatezza dell’urgenza inconscia che trapela attraverso la scrittura. In questo racconto è ben visibile il rapporto tra “ciò che preme dal sottosuolo”[24] e la capacità dell’Io di dare parole a quel materiale oscuro, tenendo conto, tra l’altro, dei lettori a cui è destinato: “rappato”. Un lavoro di sintesi di diversi registri comunicativi e livelli di esperienza psichica, nel quale le conoscenze e i riferimenti eruditi dell’autore (molti) sono proposti come ‘ganci’ a cui potersi attaccare, volendo: da questo punto di vista sarebbe interessante conoscere la reazione dei lettori giovani. Penso nuovamente a Matteo Lancini e alla necessità di parlare agli adolescenti usando i loro linguaggi: Gaglione lo fa, intessendo il testo di numerosissimi rimandi (eruditi), che possono stimolare una curiosità e quindi una voglia di sapere, nella direzione di quella pedagogia valoriale di cui parlavo prima. Anche in questo caso mi torna in mente il tema della verità o finzione, intorno a cui ruota Trovarsi di Pirandello. Non c’è dubbio che questo secondo racconto sia pieno di “verità”: un accorato invito alle giovani generazioni a diventare consapevoli, a riflettere e a prendere posizione nei confronti di ciò che sta accadendo nel mondo e al mondo. Elementi questi, che di nuovo chiamano in causa il nostro modo di lavorare: la presa di posizione etica e responsabile nei confronti di noi stessi e del mondo è infatti l’elemento chiave del metodo dell’immaginazione attiva che, come sappiamo, è la punta di diamante del lavoro junghiano con l’inconscio verso la piena realizzazione di sé (ovvero per “trovarsi”).

 

            Conclusioni

In conclusione, gli scritti di Lucariello e di Gaglione presentati oggi raccontano come possiamo dare parole scritte al “dirsi della vita”, creando e ricreando le forme della vita stessa in piena sincerità. Essi offrono un ricco materiale di riflessione sul rapporto che possiamo instaurare con noi stessi, con gli altri e con “la vita che rivela se stessa” e che noi possiamo “creare e ricreare”, attraverso l’uso consapevole della scrittura: uno strumento fondamentale che nel caso di Lucariello è servito per “uscire dal buio” e, in quelli di Gaglione per “trovarsi” e per dire SI’ al pianeta Terra.

Grazie.

 

Bibliografia

 

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Tibaldi, M., “Prestami la tua mente per pensare” in L’età del ferro, anno 1, n. 1 – luglio 2018, pp. 61-71;

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Venuti, R., “Il secolo di Kafka”, Prolusione tenuta il 15 novembre 2021 in     occasione dell’inaugurazione del 781° anno accademico dell’Università di    Siena alla Presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella;

Zambrano, M., Verso un sapere dell’anima, Cortina 1996.

[1] Le parole per dirlo è il titolo del libro di Marie Cardinal (Bompiani 2017), nel quale l’autrice racconta la propria storia di malattia e il percorso psicoanalitico che le ha permesso di liberarsi dai sintomi e dalle angosce che la attanagliavano.

[2] Cfr. J. Hillman, Le storie che curano, Cortina 2021.

[3] Cfr. L. Pirandello, Trovarsi, http://copioni.corrierespettacolo.it

[4] Ibidem (il corsivo è mio).

[5] Cfr. M. Tibaldi, “Psicologia analitica, esperienza della scrittura e conoscenza di sé”, in Rivista di psicologia analitica. 52 (1995), pp. 19-31.

[6] Cfr. W. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino 2014.

[7] Cfr. M. McLuhan, La galassia Gutenberg: nascita dell’uomo tipografico, Armando 1981

[8] Cfr. L. Floridi, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Cortina 2017.

[9] Cfr. M. Tibaldi, “L’opera al rosso. Il ‘compimento’. Stati di rubedo nell’esperienza analitica”, in S. Massa Ope, A. Rossi, M. Tibaldi (a cura di), Jung e la metafora viva dell’alchimia. Simboli della trasformazione psichica, Moretti & Vitali, Bergamo 2020, pp. 170-214,

[10] Cfr. L. Pirandello, Trovarsi, cit.

[11] Cfr. R. Venuti, “Il secolo di Kafka”,“Prolusione” tenuta il 15 novembre 2021 in occasione dell’inaugurazione del 781° anno accademico dell’Università di Siena alla Presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

[12] Cfr. M. Tibaldi, “Prestami la tua mente per pensare”, in L’età del ferro, anno 1, n. 1 – luglio 2018, pp. 61-71.

[13] Cfr. M. Zambrano, Verso un sapere dell’anima, Cortina 1996.

[14] Cfr. L. Pirandello, Trovarsi, cit.

[15] Cfr. T. Singer, The Cultural Complex: Contemporary Jungian Perspecitives on Psyche and Society, Routledge 2004. Cfr. Anche M. Tibaldi et alii, Transcultural Identities. Jungians in Hong Kong, Artemide Edizioni, Roma, 2016.

[16] Cfr. C. Loriedo, C. Angiolari, Il segreto. La complessità nascosta nel sistema familiare, Cortina, Milano 2021.

[17] Cfr. M. Lancini, L’età tradita, Cortina 2021.

[18] Cfr. L. Floridi, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, cit., risvolto di copertina.

[19] Mi riferisco alla pratica del metodo dell’immaginazione attiva. Cfr. M. Tibaldi, Pratica dell’immaginazione attiva. Dialogare con l’inconscio e vivere meglio, La Lepre, Roma 2010.

[20] A proposito dell’esperienza di doppia presa di distanza cfr. M. Tibaldi, “Doppia oggettivazione e formazione dell’Io immaginale”, in AA.VV., Alchimie della formazione analitica (a c. di G. Cerbo, D. Palliccia, A.M. Sassone), Vivarium 2004.

[21] Cfr. F. Jullien, La vera vita, Laterza 2021.

[22] Mi riferisco, ad esempio, all’aumento esponenziale, in tempo di pandemia, dei femminicidi.

[23] Cfr. M. Tibaldi, S. Massa Ope, Pandemia e trasformazione. Un anno per rinascere, Moretti & Vitali, Bergamo 2021.

[24] Cfr. C.G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni di Carl Gustav Jung (a c. di A. Jaffé), BUR 1978, p. 220.

 

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Dott. Marta Tibaldi

psicologa, psicoterapeuta, psicologa analista con funzione didattica e di supervisione presso l’Associazione Italiana di Psicologia Analitica (A.I.P.A.) e l’International Association for Analytical Psychology (I.A.A.P.)

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